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In questo senso la metafora del piccolo lago che volevo attraversare, con cui ho cominciato questa serie di riflessioni, è sbagliata. Perché in realtà una lingua non è un laghetto ma un oceano. Un elemento tremendo e misterioso, una forza della natura davanti alla quale mi devo inchinare.
In italiano mi manca una prospettiva completa. Mi manca la distanza che mi aiuterebbe. Ho solo la distanza che mi ostacola.
Non è possibile vedere il paesaggio per intero. Conto su certe vie, certi modi per passare. Qualche percorso di cui ormai mi fido, da cui probabilmente dipendo troppo. Riconosco certe parole, certe costruzioni, come se fossero alberi familiari durante una passeggiata quotidiana. Ma scrivo, alla fine, dentro una trincea.
Scrivo ai margini, così come vivo da sempre ai margini dei Paesi, delle culture. Una zona periferica in cui non è possibile che io mi senta radicata, ma dove ormai mi trovo a mio agio. L’unica zona a cui credo, in qualche modo, di appartenere.
Posso costeggiare l’italiano, ma mi sfugge l’entroterra della lingua. Non vedo le vie segrete, gli strati celati. I livelli nascosti. La parte sotterranea.
A villa Adriana, a Tivoli, c’è una rete viaria gigantesca, un sistema impressionante e imponente, tutto sottoterra. Questo complesso di passaggi è stato scavato per trasportare merci, servitori, schiavi. Per separare l’imperatore dal popolo. Per nascondere la vita vera e chiassosa della villa, così come la pelle nasconde tutte le funzioni, brutte ma essenziali, del corpo.
A Tivoli capisco la natura del mio progetto in italiano. Come i visitatori di oggi alla villa, come Adriano quasi due millenni fa, cammino sulla superficie, la parte accessibile. Ma so, da scrittrice, che una lingua esiste nelle ossa, nel midollo. Che la vera vita della lingua, la sostanza, è lì.
Torniamo a Fuentes: sono d’accordo, credo che una consapevolezza dell’impossibilità sia centrale all’impulso creativo. Davanti a tutto ciò che mi sembra irraggiungibile, mi meraviglio. Senza un sentimento di meraviglia verso le cose, senza lo stupore, non si può creare nulla.
Se tutto fosse possibile, quale sarebbe il senso, il bello della vita?
Se fosse possibile colmare la distanza tra me e l’italiano, smetterei di scrivere in questa lingua.
VENEZIA
In questa città inquietante, quasi onirica, scopro un nuovo modo per capire il mio rapporto con l’italiano. Questa topografia frammentata, disorientante, mi dà un’altra chiave.
Si tratta del dialogo tra i ponti e i canali. Un dialogo tra l’acqua e la terraferma. Un dialogo che esprime uno stato sia di separazione sia di connessione.
A Venezia non posso muovermi senza attraversare innumerevoli ponti pedonali. All’inizio dover attraversare un ponte quasi ogni due minuti mi affatica. Mi sembra un percorso atipico, leggermente difficile. In poco tempo, però, mi abituo. Pian piano questo percorso diventa abituale, seducente. Salgo, attraverso un canale, poi scendo dall’altra parte. Camminare per Venezia vuol dire ripetere quest’azione un numero incalcolabile di volte. In mezzo a ogni ponte mi trovo sospesa, né di qua né di là. Scrivere in un’altra lingua somiglia a un percorso del genere.
La mia scrittura in italiano, così come un ponte, è qualcosa di costruito, di fragile. Potrebbe in qualsiasi momento sprofondare, lasciandomi in pericolo. L’inglese scorre sotto i piedi. Me ne sono accorta: è una presenza innegabile, anche se provo a evitarlo. Rimane, come l’acqua a Venezia, l’elemento più forte, più naturale, l’elemento che minaccia sempre di inghiottirmi. Paradossalmente, potrei sopravvivere senza problemi in inglese, non annegherei. Eppure, non volendo nessun contatto con l’acqua, faccio i ponti.
A Venezia mi accorgo di uno stato d’inversione di quasi tutti gli elementi. Mi è difficile distinguere tra ciò che esiste e ciò che sembra un’illusione, un’apparizione. Tutto mi appare instabile, mutevole. Le strade non sono solide. Le case sembrano galleggiare. La nebbia può rendere invisibile l’architettura. L’acqua alta può allagare una piazza. I canali rispecchiano una versione inesistente della città.
Lo smarrimento che avverto a Venezia è simile a quello che mi prende quando scrivo in italiano. Nonostante la pianta dei sestieri, mi perdo. Il labirinto veneziano trascende la propria pianta come una lingua trascende la propria grammatica. Camminare per Venezia, così come scrivere in italiano, è un’esperienza spiazzante. Devo arrendermi. Mentre scrivo affronto tantissimi vicoli ciechi, tanti angoli angusti da cui devo districarmi. Devo abbandonare certe strade. Devo correggermi continuamente. Ci sono momenti in italiano, così come a Venezia, in cui mi sento soffocata, sconvolta. Poi giro e, quando meno me lo aspetto, mi ritrovo in un luogo sperduto, silenzioso, splendente.
Con gli anni Venezia ha un impatto sempre più sconcertante su di me. La bellezza travolgente mi trafigge, sono sopraffatta dalla fragilità della vita. Mi sento avvolta da un sogno ardente che sembra sempre sul punto di dissolversi. Un sogno più vero della vita. Passare ripetutamente sui ponti mi fa pensare a quel passaggio che facciamo tutti noi sulla terra, tra la nascita e la morte. Talvolta, attraversando certi ponti, temo di aver già raggiunto l’aldilà.
Quando scrivo in italiano, nonostante il mio amore per la lingua, sento la stessa inquietudine. Questo passo che sto facendo sembra un salto nel vuoto, un’inversione di me stessa. Così come i riflessi dei palazzi che oscillano sulla superficie del Canal Grande, la mia scrittura in italiano sembra qualcosa di impalpabile. Vaporosa, come la nebbia. Temo che il ponte tra me e l’italiano, alla fine, non esista. Che resterà, nella migliore delle ipotesi, una chimera.
Tuttavia, sia a Venezia sia sulla pagina, i ponti sono l’unico modo per muovermi in una nuova dimensione, per superare l’inglese, per arrivare altrove. Ogni frase che scrivo in italiano è un piccolo ponte da costruire, poi da attraversare. Lo faccio con titubanza mista a un impulso persistente, inspiegabile. Ogni frase, come ogni ponte, mi porta da un luogo a un altro. È un percorso atipico, seducente. Un nuovo ritmo. Adesso mi sono quasi abituata.
L’IMPERFETTO
Ci sono tantissime cose che continuano a confondermi in italiano. Le preposizioni, per esempio: alla parete, per terra, dal calzolaio, in edicola. Per ripassarle, potrei prendere appunti nel quaderno o sul taccuino. Ho una guida per aiutare lo studente straniero, contenente una serie di esercizi di questo tipo: «Mettiti … miei panni e prova … vedere la situazione … i miei occhi». Sono stucchevoli, ma li faccio lo stesso: se voglio impadronirmi della lingua, non c’è scampo. Più che altro, non riesco mai a riempire quegli spazi alla perfezione. Magari, per imparare le preposizioni una buona volta, basta questa stupenda frase che si trova in un racconto di Moravia: «Sbucammo finalmente su una piazza al sole, in un venticello frizzante da neve, davanti un parapetto oltre il quale non c’era che la luce di un grande panorama che non si vedeva».
Un’altra spina nel fianco è l’uso dell’articolo: non mi è chiaro quando si usa e quando cade. Perché si dice c’è vento, ma c’è il sole? Lotto per capire la differenza tra uno stato d’animo e una busta della spesa, giorni di scirocco e la linea dell’orizzonte. Tendo a sbagliarmi, mettendo l’articolo quando non ce n’è bisogno (tipo: «parliamo del cinema», «sono venuta in Italia per cambiare la strada»), ma leggendo Vittorini, imparo che si dice queste sono fandonie. Grazie a un cartello pubblicitario per strada, imparo che il piacere non ha limiti.
A proposito: rimango incerta sulla differenza tra limite e limitazione, funzione e funzionamento, modifica e modificazione. Certe parole che si somigliano mi tormentano: schiacciare e scacciare, spiccare e spicciare, fioco e fiocco, crocchio e crocicchio. Scambio ancora adesso già per appena.
Talvolta vacillo quando paragono due cose, per cui il taccuino è pieno di frasi del genere: Di questo romanzo mi piace più la prima parte della seconda. Parlo l’inglese meglio dell’italiano. Preferisco Roma a New York. Piove più a Londra che a Palermo.
So che non è possibile conoscere una lingua straniera alla perfezione. Non a caso, ciò che mi confonde di più in italiano è l’uso dell’imperfetto, rispetto al passato prossimo. Dovrebbe essere una cosa abbastanz
a semplice ma, per qualche ragione, per me non lo è. Quando devo scegliere tra l’uno e l’altro, non so quale sia giusto. Vedo il bivio davanti a me, rallento, e sento che sto per bloccarmi. Sono pervasa dal dubbio. Provo un senso di panico. Non capisco d’istinto la differenza. Come se avessi una specie di miopia temporale.
È solo a Roma, quando comincio a parlare italiano ogni giorno, che mi rendo conto di questo scoglio. Ascoltando i miei amici, raccontando qualcosa al mio insegnante d’italiano, me ne accorgo. Dico c’è stato scritto quando si dice c’era scritto. Dico era difficile quando si dice è stato difficile. Mi confondo soprattutto tra era ed è stato: due facce del verbo essere, quello fondamentale. A Roma, per quasi un anno, la mia confusione diventa un cruccio.
Per aiutarmi, il mio insegnante mi dà qualche immagine: lo sfondo rispetto all’azione centrale. La cornice rispetto al quadro. Una linea sinuosa anziché dritta. Una situazione anziché un fatto.
Si dice la chiave era sul tavolo. In questo caso è una linea sinuosa, una situazione. Eppure a me sembra anche un fatto, il fatto che la chiave fosse sul tavolo.
Si dice siamo stati bene. Qui abbiamo la linea dritta, una condizione con un sapore definitivo. Eppure a me sembra anche una situazione.
La confusione mi fa pensare a un motivo geometrico, una specie di illusione ottica come quella che si trova sui pavimenti delle chiese o dei palazzi antichi: una serie di cubetti di tre colori, un disegno semplice ma complesso che inganna l’occhio. L’effetto di quest’illusione è stupefacente, un po’ sconcertante: la prospettiva si sposta, per cui si vedono contemporaneamente due versioni della stessa cosa, due possibilità.
Alla ricerca di qualche indizio, noto che con gli avverbi sempre e mai si usa spesso il passato prossimo: sono stata sempre confusa, per esempio. Oppure non sono mai stata capace di assorbire questa cosa. Credo di aver scoperto una chiave importante, magari una regola. Poi, sfogliando È stato così di Natalia Ginzburg – un titolo che fornisce un altro esempio del problema –, leggo: «Non mi diceva mai che era innamorato di me … Francesca aveva sempre tante cose da raccontare … Aspettavo sempre la posta». Nessuna regola, solo ancora più confusione.
Un giorno, dopo aver letto Niente, più niente al mondo, un romanzo di Massimo Carlotto, sottolineo come una pazza ogni uso del verbo essere al passato. Scrivo tutte le frasi in un quaderno: «Sei stato dolce.» «C’era ancora la lira.» «È stato così fin da quando era giovane.» «Ero certa che tutto sarebbe cambiato in meglio.» Ma questa fatica risulta inutile. Alla fine imparo solo una cosa: dipende dal contesto, dall’intenzione.
Ormai, la differenza tra l’imperfetto e il passato prossimo mi dà un po’ meno fastidio. So che alla fine di una cena si dice è stata una bella serata, ma che era una bella serata fino a quando non è piovuto. So che sono stata in Grecia per una settimana, ma che ero in Grecia quando mi sono ammalata. Capisco che l’imperfetto si riferisce a una specie di preambolo, un’azione aperta, senza confini, senza inizio o termine. Un’azione sospesa anziché contenuta, inchiodata al passato. Capisco che il rapporto tra l’imperfetto e il passato prossimo è un sistema, complesso e preciso, per rendere più tangibile, più vivido, il tempo già trascorso. Un modo di raccontare qualcosa di astratto, di percepire qualcosa che non c’è.
Inutile dire che questo blocco mi fa sentire, appunto, molto imperfetta. Per quanto frustrante, mi sembra un destino. Mi identifico con l’imperfetto, perché un senso d’imperfezione ha segnato la mia vita. Sto provando da sempre a migliorarmi, a correggermi, perché mi sono sempre sentita una persona difettosa.
Per colpa della mia identità divisa, per colpa, forse, del mio carattere, mi considero una persona incompiuta, in qualche modo manchevole. Può darsi che ci sia una causa linguistica: la mancanza di una lingua con cui possa identificarmi. Da ragazzina, in America, provavo a parlare il bengalese alla perfezione, senza alcun accento straniero, per accontentare i miei genitori, soprattutto per sentirmi completamente figlia loro. Ma non era possibile. D’altro canto volevo essere considerata un’americana, ma nonostante parlassi quella lingua perfettamente, non era possibile neanche quello. Ero sospesa anziché radicata. Avevo due lati, entrambi imprecisi. L’ansia che provavo, e talvolta provo ancora, proviene da un senso di inadeguatezza, di essere una delusione.
Qui in Italia, dove mi trovo benissimo, mi sento imperfetta più che mai. Ogni giorno, mentre parlo, mentre scrivo in italiano, mi scontro con l’imperfezione. Questa linea sinuosa lascia una traccia, mi accompagna ovunque. Mi tradisce, rivela che non sono radicata in questa lingua.
Perché mi interessa, da adulta, da scrittrice, questa nuova relazione con l’imperfezione? Cosa mi offre? Direi una chiarezza sbalorditiva, una consapevolezza più profonda di me stessa. L’imperfezione dà lo spunto all’invenzione, all’immaginazione, alla creatività. Stimola. Più mi sento imperfetta, più mi sento viva.
Scrivo fin da piccola per dimenticare le mie imperfezioni, per nascondermi sullo sfondo della vita. In un certo senso la scrittura è un omaggio prolungato all’imperfezione. Un libro, così come una persona, rimane qualcosa di imperfetto, di incompiuto, durante tutta la sua creazione. Alla fine della gestazione la persona nasce, poi cresce. Ma ritengo che un libro sia vivo solo mentre viene scritto. Dopo, almeno per me, muore.
L’ADOLESCENTE PELOSO
Ricevo un invito per andare a Capri, a un festival letterario. Si tratta di una serie di incontri tra autori anglofoni e italiani; si svolgerà in una piazzetta sul mare, che dà sui faraglioni. Ogni anno il festival è dedicato a un tema su cui gli scrittori si confrontano. Quest’anno sarà «vincitori e vinti». Prima del festival, ai partecipanti viene chiesto di scrivere un pezzo su questo tema, per un catalogo bilingue. Visto che sono una scrittrice anglofona, la supposizione è che io scriverò questo pezzo in inglese, e che poi sarà tradotto in italiano. Ma io, in Italia da quasi un anno, sono ormai talmente presa dalla lingua che cerco di evitare l’inglese il più possibile. Scrivo il pezzo in italiano, per cui serve una traduzione in inglese.
Sarei la traduttrice naturale, ma non ne ho la minima voglia. Non mi interessa, in questo momento, tornare indietro. Anzi, mi fa paura. Quando esprimo la mia riluttanza a mio marito, mi dice: «Ti conviene fare la traduzione da sola. Meglio tu che qualcun altro, altrimenti non sarà sotto il tuo controllo». Seguendo questo consiglio, e avendo il senso del dovere, alla fine decido di tradurmi.
Immaginavo che fosse un compito facilissimo. Una discesa anziché una scalata. Invece mi stupisce quanto lo trovi impegnativo. Quando scrivo in italiano, penso in italiano: per tradurre in inglese, devo risvegliare un’altra parte del cervello. La sensazione non mi piace affatto. Provo un senso di estraneità. Come se mi imbattessi in un fidanzato di cui ero stufa, qualcuno che avevo lasciato anni fa. Non mi seduce più.
Da un lato la traduzione non suona. Mi sembra insulsa, scialba, incapace di esprimere i miei nuovi pensieri. Dall’altro sono sopraffatta dalla ricchezza, la forza, la flessibilità del mio inglese. A un tratto mi vengono in mente migliaia di parole, di sfumature. Una grammatica robusta, nessuna incertezza. Non mi serve alcun dizionario. In inglese non devo inerpicarmi. Mi deprime, questa vecchia conoscenza, questa destrezza. Chi è questa scrittrice, così ben attrezzata? Non la riconosco.
Mi sento infedele. Temo, controvoglia, a malincuore, di aver tradito l’italiano.
Rispetto all’italiano, l’inglese mi sembra prepotente, soggiogante, pieno di sé. Ho l’impressione che, finora in cattività, si sia scatenato e che sia furibondo. Probabilmente, sentendosi trascurato da quasi un anno, ce l’ha con me. Le due lingue si affrontano sulla scrivania, ma il vincitore è già più che ovvio. La traduzione sta divorando il testo originale, lo sta smontando. Mi colpisce quanto questa lotta cruenta esemplifichi il tema del festival, l’argomento stesso del pezzo.
Voglio difendere il mio italiano, che tengo in braccio come un neonato. Voglio coccolarlo. Deve dormire, deve alimentarsi, deve crescere. Rispetto all’italiano, il mio inglese mi sembra un adolescente peloso, puzzolente. Vattene, voglio dirgli. Non molestare il tuo fratel
lino, sta riposando. Non è una creatura che può correre e può giocare. Non è un ragazzo spensierato, vigoroso, indipendente come te.
Ora mi rendo conto di descrivere il mio rapporto con l’italiano in un altro modo, di aver introdotto una nuova metafora. Finora l’analogia era sempre stata romantica: un colpo di fulmine, un innamoramento. Adesso, mentre traduco me stessa, mi sento la madre di due figli. Mi accorgo di aver cambiato il mio atteggiamento nei confronti della lingua, ma forse il cambiamento riflette uno sviluppo, un percorso naturale. Un tipo d’amore segue l’altro e da un accoppiamento amorevole idealmente nasce una nuova generazione. Provo una passione ancora più intensa, più pura, più trascendente per i miei figli. La maternità è un legame viscerale, un amore incondizionato, una devozione che va oltre l’attrazione e la compatibilità.
Mentre traduco questo breve testo in inglese, mi sento spezzata in due. Non riesco a gestire la tensione, non sono capace di muovermi tra le lingue come un’acrobata. Mi viene in mente la sensazione sgradevole di dover essere due diverse persone allo stesso tempo: una condizione ineluttabile della mia vita. So che Beckett ha tradotto se stesso dal francese all’inglese. Per me non è possibile, perché il mio italiano resta molto più debole. Non sono pari, questi due fratelli, e il mio favorito è il piccolino. Nei confronti dell’italiano non sono neutrale.
Quanto alla traduzione in inglese, la ritengo un obbligo, nient’altro. Lo trovo un processo centripeto. Nessun mistero, nessuna scoperta, nessun incontro con qualcosa al di fuori di me.
Devo ammettere, però, che viaggiare tra le due versioni risulta utile. Alla fine, lo sforzo della traduzione rende la versione in italiano più chiara, più articolata. Serve alla scrittura, anche se sconvolge la scrittrice.